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«Parva sed apta mihi», recita il proverbio latino. Ecco perché le nostre case ci rappresentano (e come fare
affinché ci rappresentino ancora di più)
In tempi pandemici, il cui motto saecula saeculorum sarà l’hashtag #RestiamoACasa, la casa ritrova una
centralità degna di riflessioni.Perché possa rappresentare una chiave importante per la difesa della salute mentale (o lo possa diventare), può essere utile illustrare gli snodi di un termine, psycodesign, che iniziai a concettualizzare lungo lezioni e seminari universitari molti anni fa, a partire dal prezioso lavoro svolto con A. Catucci Lo spazio come metafora delle relazioni umane (1980) seguendo P. Ariès.
La parola «psycodesign» designa il legame tra l’ambiente nel quale si vive e la propria mente: gli oggetti ci rappresentano, e così i mobili, gli infissi, i pavimenti, le decorazioni. I manifesti fino alle pentole finanche le loro presine, che scegliamo. O che dovremmo scegliere.
La disposizione può rispecchiare i nostri circuiti di pensiero, rinforzare la nostra identità e condizionare in modo positivo il vissuto quotidiano parlando di noi stessi a noi stessi (e ad altri fruitori del nostro spazio) in un dialogo virtuoso, destinato tra le altre cose a «ordinare» la percezione del reale a partire dal proprio nido.
Perché è così che spesso sentiamo i luoghi nei quali abitiamo: come nidi. Nel nostro habitat raccogliamo energie per riuscire ad affrontare, a resistere, a divertirci, nel Mondo, miglioriamo e rafforziamo la nostra identità. Per farlo occorre sentirsi a proprio agio, sentirsi «interpretati» dalle cose che offrono sicurezza e modalità edite e inedite di espressione individuale nello spazio.
Proprio le cose ci fanno anche correre su e giù lungo la corda del tempo, nella memoria (anche ingannandola) e permettendoci di muoverci nel futuro. Come pioniera della legge 180, ho mosso riflessioni sul concetto chiave di psycodesign partendo dalle residenze psichiatriche alternative al manicomio e al nuovo squallore alienante delle Case Alloggio (tipo finta famiglia).
L’obiettivo era riuscire a formare un luogo della mente e del cuore utilizzando l’idea architrave di «sistema di oggetti», connessi tra loro e con l’identità degli abitanti in relazione alle storie personali, alle radici geografiche e famigliari, alle passioni. Così le case acquisiscono una loro propria identità, riflessa a intreccio ed embricatura di quelle dei committenti-proprietari-abitanti.
Possono diventare specchio, del sé e delle relazioni. Tanto che si affitta anche, a volte, un pezzettino di cuore del proprietario. Son posti interessanti dove si sta “comodi” che riflettono i nostri interessi. Almeno, questo dovrebbe essere l’obiettivo.
Sono una psichiatra e psicologa, e sono un’appassionata di design, di arte, una cercatrice di bellezza. Che poi, la bellezza stessa cura la mente. Dalla fusione o, se preferite, dalla contaminazione, tra un mestiere e una passione, anche in rapporto al Progetto Bauhaus – che ho fondato nei miei lunghi anni di esperienza nel Centro di Salute Mentale di Bari, del quale sono stata direttrice – ho tratto spunti importanti per la mia metodologia di psicoterapia.
Occorre infatti connettere esperienze e vissuti psichici in case e oggetti scelti. Il mio nuovo compito è dare voce alle parti interiori, dunque, un po’ pomposamente, alla Psiche. La casa, del resto, è uno dei simboli del Sé: non è infrequente, per esempio, sognare di trovarsi in una casa che può essere stata frequentata quando eravamo bambini e scoprirvi stanze nuove, mai viste o mai esistite, nelle quali infilarsi ed esplorare.
Quando nel sonno ci muoviamo in ambienti simili, ci stiamo muovendo in realtà in una dimensione interstiziale tra la coscienza e l’inconscio: ci stiamo muovendo dentro di noi, in parole povere, nei nostri ricordi e nelle nostre possibilità cognitive, così come nei cunicoli delle esperienze vive eppure rimosse, celebrate oppure sepolte.
Ne viene la casa «vera», quella nella quale si abita, deve essere una vera dimora per lo Spirito, oltre che per il corpo. Ovvio che una casa possa essere terapeutica o patogena, “vuota” della persona che pure la abita o… troppo “piena”, con poco equilibrio tra le identità dei vari fruitori.
Devo necessariamente partire da una casa-per-esempio, realizzata nel 2011. L’esperimento è stato fatto partendo da un “pezzo” facile: la casa di una persona che conosco benissimo, a Milano, che ho personalmente curato e arredato utilizzando la gran quantità di informazioni che possiedo su di lei.
Creativa, giornalista, esperta di musica, appassionata di serie tv, libri e cinema, la sua casa gode intanto di un contesto d’eccezione, acquatico, in Milano: i Navigli che, se li ha scelti la Merini, vuol dire che lì batte l’anima stessa di questa vecchia città-signora.
La notte, sul quartiere, zufolano uccelli; di giorno il verso di anatrelle e nella giusta stagione – ora! – lo stridio di rondini riempie l’aria. Il buon risultato estetico di piacevoli palazzetti e casette che si specchiano e si diramano come in un tiny village provoca il sottile convincimento nel visitatore d’aver seguito un sentiero dorato o, come Mary Poppins, d’esser saltati tra i gessetti di un disegnatore sulla strada e d’esser finiti in una dimensione parallela.
Tale è la forza dell’armonia e della buona composizione estetica e così altrettanto siamo usualmente turbati dalla bruttezza edilizia – che è a somiglianza dell’anima dei cattivi costruttori. Avevo sino allora realizzato, seguendo le stesse coordinate di Psiche-e-Design, un Centro di Salute Mentale, una casa in città e un’altra in campagna marina, in Salento, immersa nel mare, sole e vento.
Ma quali sono stati i fili che ho seguito in questa operazione di Psiche interior decoration?
Il successo che ha avuto la casetta sui Navigli (anche più volte pubblicata) merita qualche riflessione. L’idea dominante è stata quella di una casa in cui echeggi ancora l’infanzia – dorata e felice – di una «bambina» ormai grandicella. È un luogo dove tutte le passioni d’allora e di ora continuano e s’intrecciano tra loro.
Vi sono vari giocattoli di quando la proprietaria era piccola, che spesso si trasformano in oggetti fintamente o realmente “funzionali”: per esempio il table-baisse del salotto è uno slittino dove poggiano impilati autentici cubi musici di stoffa – già quarantennali – ma anche bicchieri desiderosi di birrette.
Portariviste dello studio-gioco della casetta sui Navigli è quello che un tempo fu un costoso carrettino trascinato senza pietà di qua e di là; ora è un mobile a tutti gli effetti. La mia personale vocazione di raccoglitrice di giochi antichi per vecchi bambini (anche di vecchie case di bambola!) ha facilitato il travaso.
D’altra parte chi se non una psicoterapeuta può mantenere forte la pesatura di valori dell’infanzia? Le case sono anche – forse soprattutto – contenitori di ricordi.
Costruite le regole basiche, segue, in effetto domino invertito, un’autopoiesi, ovvero la casa autonomamente prende vita, lungo i fili delle narrazioni dei protagonisti-committenti. O per caso, si completa da sé!
In questa casetta la terrazza è divenuta un piccolo, quieto frutteto tra i tetti. Una scelta nata da un felice incrocio tra necessità di budget (quando si arriva alla terrazza di solito i soldi son finiti) e la felice scoperta che le più economiche piante alte in vivaio sono alberelli da frutta.
Sono passati anni, quasi dieci, e ora persino minuscole piantine di fragole fanno capolino tra melette rosse come le guance di bimbi, di più cultivar, piccole albicocche, improbabili susine e la speranza – premiata – di fichi mediterranei mischiati poi con aceri aerei verdi e rossi, banksiae rigogliose a giugno, forsithie e naturalmente vite americana.
C’è anche una bella casetta per gli uccelli – casetta nella casetta – che rischia d’essere invece una trappola per i merli che due gatti insidiano. Per la delizia degli abitanti, usuratissimi anziani mobili da giardino possono continuare senza alcun affanno di ricovero a consumare la loro vernice sotto la pioggia e il sole.
E sedioline-civettine da grande magazzino – così come il letto – sono state malamente tinteggiate in bianco con le mani prive d’esperienza della padrona di casa. Dalla terrazza l’ingresso è diretto nel cuore della casetta, dove una massiccia canonica proveniente dalla sacrestia di una chiesetta ha pazientemente atteso nei saecula saeculorum di diventare civile stiva. Si è sposata con le belle mensole di noce e abete, stravecchione.
Portano il ricordo dei legni della campagna e sono l’ossatura della casa, insieme alle stellatissime suppellettili – tra cui la base di un tavolo di Giava divenuta libreria-a-stella, impromptu – e un’impalpabile atmosfera, che a ben frugare nei ricordi della proprietaria vengono dalla sua casa di campagna marina del Salento.
Il megaschermo in soggiorno, però, tradisce l’aspirazione verso Hollywood e le serie tv, e verso case ben più ampie e sontuose… Megaschermi veramente s’insinuano in tutta la casa, in camera da letto e in uno studiolo-stanza da gioco, in cui appare una scrivania di tronchi, opportunamente tarlata.
Da poco un altro studiolo, intagliato a draghi, alleggerito in bianco dal cupo noir d’epoca, difende da intrusi sgraditi. Fa eco una piccola lampada drago che accoglie i visitatori, nell’ingresso del piano terra – cave dragonem! – e fa sentire ben protetti.
Il drago apre le sue ali anche nello specchio anni Quaranta supercheap del bagno del piano terra, dove una dama bianca è
ricamata anzi è «illuminata» – poiché il ricamo-centrino è divenuto lampada!
Al di sopra dello specchio-drago si trova una parete di pietra di cava, bianca di Giovinazzo – Puglia –, che tappezza il vano dell’ampia doccia, così come nel bagno del piano superiore fa da sfondo alla capace vasca da bagno. Lo specchio del piano superiore, vintage Cinquanta, che non si vergogna di mostrare le sue ammaccature, è ampio e dorato e gareggia in basso costo con lo specchio–drago del bagno inferiore, ma a loro si oppone il lussuoso getto a nastro dell’oro francese e prezioso dei rubinetti.
La stessa pietra dei bagni, sposata con l’ampio piatto di ceramica pugliese della cucinotta, fa da sfondo all’acquaio mentre una libreria ottocentesca ha rubato il posto della credenza ed espone nei suoi vetri con sapienza intellettuale, miscele di torte, piatti supersquadrati e i molti differenti bicchieri, di solito souvenir di locali cari al cuore.
Il vecchio scuro cucù si allea con la mensolona scura trovata nel mercatino sotto casa. La camera da letto «svela» l’identità dei committenti: per la grande corona seicentesca sulle loro teste dormienti, come in un’illustrazione della Regina delle Nevi. Che vivono nell’«Isola» verde-e-azzurra di Innamorati, in un cartone utilizzato dalla grande pittrice naif pugliese Maria Trentadue.
Quando scoprì la passione dei pennelli dipinse su bottiglie, piatti, carta, cartone e ben raramente tele! Aspetta anche lei che della sua forza creativa s’accorgano critici e genti. Ma accadrà. D’altronde, non è un caso: nella stanza è presente, sì, il cassettone ottocentesco di famiglia materna e il baule Liberty del viaggio fino ad Ellis Island del trisnonno materno, ma il quadro permette il rientro rapido nel mondo delle fiabe nordiche (Grimm, pur se da lei non conosciuto, sepolta nel suo paesello modugnese).
Che sognare è un po’ viaggiare… Nel resto della casa si possono vedere torrette bianche di libri, santi, provenienti da case di famiglia, numi protettori. S. Giuseppe da Copertino, monaco volante pre-chagalliano del Settecento salentino, S. Nicola in vecchia icona popolare, una Maddalena.
Ali perdute da angeli gareggiano con quelle delle lampade Lucellino di Ingo Maurer. E, cedendo a un impulso di griffe, il tavolo e le sedie Tulip provenienti però da un vintage shop. Infatti il riciclo o riutilizzo è un altro dei concetti basici di Psiche applicata al Design.
E, nell’ingresso-uscita, lungo la scala e in salone un cartone dipinto da Maggiulli, formelle dell’Orecchio di Schiavulli, una “stoffa sacra” stellata di Liberatore, un olio siciliano di Vanadìa, fanno compiere altri piccoli salti temporali.
Dunque, seguire Psiche nel design è – credo – riuscire a formare un «sistema di oggetti» ben connessi tra loro, lungo un filo che narra storie personali, radici geografiche e famigliari, le passioni dei committenti; così le case acquisiscono una loro propria identità.
Nasce dunque da un’accurata antologia di preziose informazioni sui proprietari, raccolte così come si compone una psicoterapia, dunque anche, e soprattutto, inusuali, secondo la metodologia di analisi che ho illustrato in più lavori.
Maristella Buonsante