“In un mondo o nell’altro”
A quarant’anni dall’entrata in vigore della legge di riforma Basaglia, che decretò la chiusura dei manicomi in tutto il territorio nazionale, è legittimo domandarsi quanto di quella rivoluzionaria normativa, sia stato realizzato e quanto invece permanga ancora in attesa di attuazione. È altrettanto necessario chiedersi quale sia il rapporto che la società instaura oggi nei confronti dell’ammalato psichiatrico, sul quale grava da sempre uno stigma troppo spesso creduto insuperabile. Non vi è infatti dubbio che una condizione di emarginazione non possa favorire in nessun modo il miglioramento della malattia e che, la creazione di ghetti, nei quali relegare gli ammalati, produca essa stessa disagio. In un mondo peraltro così tanto rivoluzionato dalla tecnologia, la crisi economica appare ancora invincibile, soprattutto per i più deboli.Con la personale convinzione che una parte della malattia risieda anche in una errata relazione che la società riesce ad instaurare con gli ammalati e che siamo tutti investiti di una responsabilità che crediamo non appartenerci (persuasi come siamo che il “matto” sia “matto” per suo limite esclusivo), consapevole anche che sia doveroso regolare i rapporti tra forza e fragilità nella direzione di un maggior equilibrio, ho chiesto alla Professoressa Maristella Buonsante, Direttore del Centro di Salute Mentale di Bari, psichiatra e psicoterapeuta, nonché Docente di Psichiatria presso l’Università degli Studi di Bari, di aiutarci a comprendere meglio le problematiche del mondo nel quale si trova oggi ad operare.
D. Professoressa Buonsante perché ha scelto di diventare psichiatra?
R. È una domanda che mi sono posta parecchie volte. Sono stata una bambina letteralmente programmata per la lettura. Io ho coniato un termine: reading alcholic. Ecco,io ero una “reading alcholic” una bambina che passava tutto il suo tempo a leggere e tra le tante cose ho letto, verso I 13 anni, Freud, in particolare I tre saggi fondamentali: “Psicopatologia della vita quotidiana” “Il caso del piccolo Hans” e “Tre saggi sulla sessualità”. Nella scelta della mia professione ha senz’altro influito anche la collaborazione che prestavo sin da piccola ai lavori di mio padre, chirurgo, del quale, quando assunse la libera docenza, battevo a macchina gli scritti e questo già a nove o dieci anni. Anche il ricordo di mia nonna materna, Stella, che sapeva curare con erbe e preparava pozioni tranquillanti con papaveri (“questa è la papagna” mi spiegava nel piccolo giardino della sua casa bianca in paese) ha di sicuro in qualche modo influenzato la mia decisione ed in generale tutta la mia famiglia, grande e complessa, intelligente, problematica ed interessante, è stata il crogiolo da cui si sono in seguito dipanate le mie scelte. Sono poi stata particolarmente fortunata, perché, laureata in medicina nel Settantasei, nel Settantotto ho avuto, grazie alla riforma Basaglia, la possibilità di scendere in campo direttamente sul territorio (proprio a maggio) dove ho poi studiato, costruito ed applicato la metodologia della nascente “psichiatria territoriale”. Anche i grandi psicoterapeuti dell’epoca infatti, pur essendosi “avventurati” sul territorio, lo avevano fatto al massimo con un ruolo consulenziale, da universitari o negli studi privati, ed in ogni caso ben presto ne erano fuggiti. Io scelsi la trincea e di occuparmi direttamente dell’applicazione della riforma basagliana e posso dire che si è rivelata esperienza emozionante ma anche rischiosa, soprattutto all’inizio, quando bisognava affrontare situazioni di grande complessità senza Maestri, avventurandosi nelle strade non ancora percorse da nessuno, per la liberazione di psicotici gravi dal Manicomio.
D. Quali obiettivi è possibile porsi oggi nella cura del malato psichiatrico o, in altre parole, cosa considera lei oggi un successo nella battaglia contro la malattia psichiatrica?
R. Guardi, in primo luogo mi sento di sgombrare il campo da taluni estremizzazioni del pensiero che hanno portato anche grandi psichiatri come Thomas Szasz, ad affermare che la malattia mentale non esiste. Ahimè, la malattia mentale non solo esiste ma è doveroso domandarsi se non sia addirittura un’utopia la salute mentale! Quanto agli obiettivi, sono quelli che i grandi Maestri della psichiatria, in particolare europea, ci hanno indicato, Freud primo tra tutti, per il quale la guarigione consisteva nel passaggio delle nevrosi all’esperienza delle quotidiane infelicità della vita. Ancora più bella la strada indicata da Henry Ey, per Il quale l’obiettivo della psichiatria è liberare tutti gli esseri umani, non solo i pazienti, dalle catene psichiche, obiettivo sintonico con quello della grande icona della psichiatria, con la quale si fa iniziare la storia della psichiatria contemporanea, Philippe Pinel, che libera dalle vere catene, quelle di ferro, le donne ammalate, rinchiuse nell’ospedale della Salpetriere.
Per me, che mi sono occupata di territorio, aldilà degli obiettivi usuali della psicoterapia o della psicofarmacologia, è essenziale lavorare sulla psicoriabilitazione e dunque sul miglioramento delle condizioni di vita delle persone e non mi riferisco solo a quelle dei pazienti gravi, di quelli che in altri tempi sarebbero stati sepolti vivi nei manicomi, ma anche di quelli meno gravi, perché anche forme di malattia non grave come gli attacchi di panico possono costringere chi li subisce alla segregazione, all’isolamento. È fondamentale anche diminuire la sofferenza psichica e consentire ai talenti naturali di emergere, di manifestarsi. Ritengo che comunque tra gli obiettivi sia necessario porsi quello della guarigione anche se, parlare di guarigione presuppone l’esistenza di una malattia e la sua conoscenza e di questo noi ci stiamo ancora occupando tra molte domande senza risposta. Spesso, sotto una sola definizione, di una certa malattia (per es., schizofrenìa) raccogliamo ancora forme molto diverse le une dalle altre. Di qui la fortuna del concetto di “spettro” (per es, nel disturbo autististico, sotto lo spettro dell’Autismo, vi sono forme ad alto e basso funzionamento). Detto ciò, ho avuto pazienti che sono “guariti” e sebbene, quando si parla di psichiatria, le virgolette abbondino, frequenti sono i casi in cui sono riuscita a decodificare i sintomi del paziente, lavorando come se il sintomo sia una sorta di enigma, (impostazione che personalmente molto mi appassiona). Ancora, uso metafore, sciolgo loop logici, chiarisco I dilemmi paradossali in cui le persone si arenano. Questo coincide con la liberazione almeno sintomatologica (ma anche con la decodifica di messaggi legati a reti relazionali in cui per così dire le persone sono rimaste impigliate). Uso spesso la metafora della galassia con il paziente che arriva ed appare disperso, sperduto appunto come in qualche parte di una galassia e gli dico che per ricondurlo verso casa ho bisogno di sapere dove precisamente si trovi. Ed esploriamo insieme la sua identità, le sue relazioni, la comunicazione.
D. Quarant’anni fa fu approvata la legge 180 che, prima al mondo, imponeva la chiusura dei manicomi. Secondo lei era possibile realizzare gli obiettivi che si prefiggeva?
R. La riforma era necessaria perché il manicomio era una vergogna ed un’inutile fabbrica di follia, nella quale, come in ogni istituzione totale, i deboli sono destinati a soccombere e la cura diventa impossibile. Come già le ho detto, sin dall’inizio ho lavorato sulla metodologia del territorio, finendo in quegli anni, per questo, citata, mi permetta di dirlo con un po’ di vanità, sull’ Enciclopedia Treccani dal grande psicologo clinico Leonardo Ancona. Mi preme però sottolineare che con la Legge di riforma 180 noi non abbiamo solo realizzato un obiettivo di tipo umanitario o di tipo medico: noi abbiamo realizzato un obiettivo infinitamente più grande, la cui portata è per me paragonabile alla Rivoluzione Francese o all’emancipazione della donna, e così come in medicina si è compresa la fisiologia attraverso la patologia, allo stesso modo lo studio della malattia psichiatrica ci ha permesso di capire il funzionamento della psiche umana, traendovi informazioni, come in miniera, valide per tutti, ovvero per la salute mentale. Abbiamo quasi lavorato, per molti anni, su una psicoterapìa di massa! E abbiamo realizzato una capillare rete di assistenza psichiatrica, prima limitata a grandi manicomi e a qualche Clinica universitaria. È tuttavia vero che, passando dall’assenza di conoscenza ad un eccesso di informazioni, si è formato un grande mercato nel quale talvolta si trovano ad operare un gran numero di cialtroni, ma questo ahimè, accade in tutte le discipline fortemente innovative.
D. Come si pone oggi l’Italia rispetto agli altri paesi nel trattamento della malattia?
R. Non è facile rispondere a questa domanda. Molto meglio, credo. Ci sono paesi che fanno ancora ricorso a pratiche primitive come la tortura. Di solito a lunghissimi periodi di cura in Ospedali psichiatrici, di molti mesi o anni. A superdosaggi di psicofarmaci, a volte con effetti collaterali che rappresentano un significativo ostacolo per il miglioramento. Di recente stiamo assistendo, a livello internazionale e nazionale ad una rimonta della psichiatria biologica, sebbene la stessa epigenetica abbia riconosciuto il ruolo che l’ambiente esercita attraverso i cambiamenti, anche quelli indotti dalla psicoterapia e dalla psicoriabilitazione. Vede, negli anni Settanta, ma anche Ottanta e Novanta, noi psicoterapeuti non eravamo presi sufficientemente sul serio dai sostenitori degli altri settings della psichiatria come quello genetico, quello farmacologico o appunto quello biologico. Eppure, ritengo che qualunque sia la presunta origine della malattia, noi abbiamo l’obbligo di intervenire instaurando una relazione con il paziente, in assenza della quale noi non riusciremmo nemmeno ad ottenere il necessario consenso alla cura, ne’ un chiarimento diagnostico, ne’ l’assunzione degli stessi psicofarmaci e la modulazione del loro uso, tanto meno un cambiamento dell’indispensabile stile di vita.
D. È quasi sempre inevitabile, nelle famiglie dei pazienti, il manifestarsi di una sorta di “sindrome del familiare dell’ammalato psichiatrico “a mio avviso non meno invalidante della malattia psichiatrica stessa. Cosa è possibile fare oggi per superarla?
R. Guardi, il sostegno alle famiglie è un capitolo fondamentale nella cura, anche perché nel caso di ammalati gravi e medio-gravi, lavorare senza l’ausilio delle famiglie è impensabile. La sofferenza delle famiglie è purtroppo inevitabile soprattutto nei casi di malattie gravi e croniche (come in tutte le malattie croniche e gravi) in cui, a volte, persino noi fatichiamo per ottenere anche minimi miglioramenti. L’aiuto alle famiglie, aldilà della psicoterapia familiare e della psicoeducazione, a volte comporta l’inserimento in strutture residenziali e semiresidenziali, come ratio estrema. Occorre però vigilare perché le strutture stesse sia realmente psicoriabilitative mantenendo almeno idealmente l’obiettivo di un’uscita dal circuito stesso, di ritorno in abitazioni singole, che sogno legate al cohousing, già da molti anni (come nel mio Progetto Bauhaus)
D. Professoressa Buonsante, lei ritiene che oggi la società sia più pronta ad accogliere la malattia ed a superare lo stigma che da sempre porta con sé?
R. Dipende. Noi viviamo in una società nella quale solo in apparenza condividiamo tutti lo stesso mondo. Esistono di fatto delle bolle, che sono temporali e culturali e pertanto c’è chi vive nel Medioevo e chi invece nel futuro. In generale vi sono delle élites che manifestano oggi una grande disponibilità ad aiutare e comprendere. Permangono tuttavia i pregiudizi anche nei confronti di tali élites da parte della società ed ovviamente tali pregiudizi permangono anche nei confronti della malattia e degli stessi operatori, non di rado sottoposti allo stesso stigma dei pazienti
D. A suo giudizio la crisi economica ha prodotto un aumento nel numero di coloro che ricorrono alle cure? Si può affermare che vi sia una relazione tra indigenza e malattia psichiatrica?
R. Senz’altro in presenza di una condizione di povertà il disagio psichico è maggiore, proprio perché non vi sono quei diversivi di stile di vita che rappresentano una parziale risposta al disagio stesso. Comprare di tutto, mangiare in convivio, andare in spa, occuparsi del corpo, viaggiare, stare comodi, I poveri non possono farlo. Per chi è oggi ammalato, nonché per le famiglie di appartenenza, la povertà (come in un famoso saggio fu scritto, in Classi sociali e Malattie mentali ) appare un’ulteriore catena che ostacola la libertà di programmare e decidere la propria vita, di costruire un’identità forte per fronteggiare il caos e l’incertezza dei nostri destini umani. Ed è dunque più che mai importante che i Centri di Salute Mentale dispongano di adeguate risorse per la psicoriabilitazione, contro la solitudine in primis.
D. A proposito delle nuove sfide che la psichiatria deve oggi affrontare, di quali mezzi dispongono le nostre strutture per affrontare il disagio psichico dei migranti?
R. Il disagio psichico dei migranti attraversa una fase di rapida crescita. C’era da aspettarselo, perché, senza conoscere la lingua del Paese, le abitudini, le usanze, con scarsissimi strumenti per comunicare l’enorme disagio, a fronte delle esperienze limite che tanti hanno sopportato, sradicati, senza connessione con le loro etnie, sono i nuovi disperati matti, sigillati nell’Italia, che corrispondono ai vecchi reclusi nel manicomio. Sono nel “Manicomio Italia”.
D. Professoressa, per concludere, nel film di Bergman del 1962 “Come in uno specchio “il regista fa dire a Karin, una giovane ammalata, poco prima di decidere di ricoverarsi, queste parole: ”Bisogna decidere di stare in un mondo o nell’altro“. È possibile porsi oggi ancora in questi termini nei confronti della malattia? Ed infine, se potesse, cosa si sentirebbe di dire a Karin?
R. La sua è una domanda bellissima. Io non ho purtroppo visto il film ma, posto che lo specchio svolge da sempre un ruolo centrale in psichiatria (lo specchio di Narciso, uno specchio tremolante di acqua che ci fa capire quanto sia precaria la nostra identità o i neuroni specchio, che sono stati l’ultima scoperta italiana sulla fisiologia cerebrale), il problema di decidere quale mondo abitare è in effetti il problema in sé della mia disciplina e riveste un’ importanza ancora maggiore oggi con la frequentazione talvolta rischiosa da parte di tutti noi di mondi virtuali prima inaccessibili, con ulteriore possibile confusione di mondi, tra mondo interno, mondo virtuale, mondo reale consensuale.
D. Grazie per avermi dedicato il suo tempo e buon lavoro.